Di Luca Sc.
Roma, 23 ottobre 2018
Amiamo tantissimo le chiacchiere, siano esse da commento social, colleghi di lavoro o, ben più mass-mediali, tipici da Temptation Island e Grande Fratello VIP.
Sentire costantemente quanto ci piace e assurge a buono e bello pare farci del bene, ma non è così.
Sentiamo veramente?
Abbiamo sempre dinanzi le camere da ‘Confessionale’, in stile GF, in cui il malcapitato di turno vomita tutto quello che gli passa per mente di fronte a milioni di persone.
Sente tutto quello che dice? E noi, che stiamo ascoltando?
Gli ascolti record di questo genere di programmi pare diano ragione a questo modo di fare, ma alla lunga finiamo per screditare la nostra stessa intimità e il nostro buon senso.
In mezzo a tutta l’accozzaglia informe di parole vuote e che non vorrebbero indurci al vero ascolto, talvolta, qualcuno alza le orecchie e la voce.
Si tratta del letterato, scrittore ed educatore Alessandro D’Avenia, il quale, nella sua rubrica del lunedì sul Corriere, ‘Letti da rifare’, apre una finestra sul mondo introspettivo, quasi a voler gettare un amo e far da assist a un nuovo vecchio modo di vivere.
Oggi, nella cultura capitalistico-pop, si va per nazional popolare: vige la regola del roboante chiacchiericcio. Se non parli, non dici e non posti, subito, la tua non sei, non esisti e non vali.
Ci troviamo nella cultura della comare che, per riempire il vuoto interiore, dà sfogo al rumore all’esterno, contribuendo non di poco ad accrescerlo.
Nel suo articolo, editato a mo’ di romanzo di formazione, lo scrittore palermitano non manca di citare filosofi, pensatori cristiani, come anche di rifarsi ad esperienze pedagogiche.
Il tacere forma la parola e permette, dapprima, l’ascolto di noi stessi. Proferire parola è germinativo: per procreare bisogna attendere, come in una gestazione.
Il linguaggio sentito, ascoltato, passa dal cuore e, il più delle volte, è l’intimità a invogliare noi stessi ad entrare nel dialogo personale.
L’ascolto nasce dal proprio sentirsi, dallo scrutare il proprio bagaglio composto da ‘senti-menti’ e parole non proferite e, dunque senza eco.
A nulla vale il cercare, dopo il bailamme vario ed eventuale, di stare in una camera anecoica, priva di suono alcuno: non è di quel straziante silenzio che abbiamo bisogno.
L’ascolto di noi stessi è la medicina contro una cultura che ha perso le acquisizioni più basilari del sano umanesimo: il giusto equilibrio tra parola e silenzio.
Il buon retore, oggi come nella Tagaste del IV secolo, sa discernere bene l’intermittenza tra discorso e attesa silenziosa di esso. Solo così si prepara l’uditorio, l’orecchio, per poter ‘de-gustare’ e sentire bene quanto venga a dirsi o sia stato già detto.
Oggi si invoglia, già da piccoli, ad essere veloci nel parlare, ad avere la risposta pronta, alla diatriba iper-connessa: perché non si educa al giusto silenzio?
Sarebbe una buona panacea alla nostra sete di auto-affermazione: prima del fare o dire qualcosa vi sta l’ascolto attento del nostro sentire, dei nostri ‘senti-menti’.
Il letto da rifare di cui si tratta ha bisogno di abbastanza cura e di lenzuola da ben stirare, magari senza il sottofondo della D’Urso nazionale.
Chi fosse interessato potrà leggere l’articolo di D’Avenia, dal sito del Corriere, recante il titolo ‘L’equilibrio è nelle orecchie’.
Buona lettura.
Grazie per l’ascolto.
Luca