Di Luca Sc.
Roma, 27 aprile 2018
Sempre più ragazzi stanno soli, volendo deliberatamente rinchiudersi nel loro micro-macro cosmo, in una stanzetta che racchiude tutto quello di cui pensano di avere bisogno.
Dramma dell’umanità che fagocita se stessa o campanellino d’allarme? Io propendo per la seconda ipotesi.
La generazione che segue la mia, quella di codesti Hikikomori (lett. stare in disparte), ha molte più possibilità e conoscenze, molte più esigenze, ma anche più vulnerabilità.
Mi spiego meglio.
Fino a una decina di anni addietro, se volevi giocare, andavi alla pista di pattinaggio o al campetto sotto casa (io proprio vi abitavo dinanzi), prendevi in mano la tua bicicletta, i tuoi pattini, stavi in mezzo alla gente, ti beccavi gli insulti o le lodi dei coetanei e, in questo modo, facevi un po’ di palestra della vita.
Potevi andare a fare una passeggiata, senza stress, senza mamme super-apprensive, senza intrusioni social, senza il dramma di una società destrutturata, individualista al 99,9 per cento.
Rendiamoci conto, per esperienza personale, che, in pochissimo tempo, il mondo è stravolto più che durante le rivoluzioni dei ‘70s. Sembra incredibile, ma è così.
Nuove ideologie a parte, nessuno pensa al bisogno della relazione autentica: bisogna andare dagli psicologi a fare terapia di gruppo per capirlo!
Questo modo di vedere la vita è tossico, porta alla spersonalizzazione dell’uomo. Abbiamo poco da pensare, è così (!), ma molto da fare.
Cominciamo a includere, nella semplicità di intenti, gli altri nella nostra vita, le loro esigenze, senza perdere, ovviamente, il nostro punto di vista.
Nessuno vuole stare da solo per sempre: vi ricordate il film “Cast Away” con Tom Hanks di qualche anno fa? Io sì e ricordo pure che il protagonista si era creato un fantoccio-palla con cui parlare.
Hikikomori, state rinchiusi quanto volete, ma prima o poi capirete che il mondo vi può amare e, magari, non è ostile a prescindere.
A presto,
Luca Sc.